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Riflessioni da parte di alcuni nostri Amici

Cantoria di Martignacco 1964
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Cantoria a Martignacco

La Cantoria di Martignacco nei miei ricordi d’infanzia

Lavia di Sopra, fine anni ’60 dell’altro secolo.                                 
Adagiato nella quiete tra colli prativi e boschi, il piccolo borgo contava una manciata di case di pietra irregolarmente disposte lungo un’unica strada al suo incrocio con una seconda. Entrambe, al tempo, polverosamente, pittorescamente, nostalgicamente bianche.

Visto dal cielo, probabilmente avrebbe potuto ricordare i grani sfilacciati di un brandello di rosario al suo trivio.
Sul crocicchio, appena discosto, un ossuto palo di acacia conficcato nel terreno reggeva al suo apice un braccio aggettante e un piatto metallico convesso con avvitata una semplice lampadina domestica, rozzo - e unico! - precursore di illuminazione pubblica dell’abitato.
Nelle serate estive, la sua luce fioca segnava il punto d’incontro per gli abitanti dell’intera borgata e per le falene.    
Al lieto convegno, tutte le età erano ammesse. Nel fresco chiarore, si ascoltavano le storie altrui e si narravano, con versioni via via più esagerate, le proprie. Di tanto in tanto, il brusio era rotto da serene risate.                                                               
Ho vissuto qui fino ai miei spensierati otto anni: un discolo selvatico con le ginocchia perennemente sbucciate sul sassoso fondo stradale, sempre intento a correre e far capriole tra l’erba alta dei prati, a caccia di grilli e di sole, o in epiche esplorazioni nella “tana della volpe”, presso il Poggio Stringher, o coi piedi in ammollo per interi pomeriggi nel torrente, “a vrìe cù le vuàte”, o a sguazzare, nelle giornate più torride, nella pozza dell’”Acqua di Çjarìn”: avventure quotidiane che assai spesso degeneravano in “innocenti” sassaiole tra coetanei…ma che il giorno seguente, completamente dimentichi delle violente scaramucce occorse, vedeva di nuovo immancabilmente insieme, compagni di una inscindibile, mai intaccata amicizia. 
Anni intensi e rudi.  
L’anno era il 1970. Potrei azzardare che Pasqua fosse l’occasione. 
A suggellare il trasferimento della famiglia in paese, mio padre mi portò per la prima volta a cantare in Cantoria (con questo termine si intendeva sia il gruppo di persone che col canto animava le messe solenni, sia il luogo, posto lassù in alto tra le arcate del coro, a ridosso dell’organo a canne, dove si stava a cantare) nella grande chiesa di Martignacco.
Egli aveva opportunamente ritenuto che, accingendomi a diventare in qualche misura un “cittadino”, era tempo che adottassi una condotta più civile e che mi inserissi, prima che fosse troppo tardi, nel tessuto sociale del paese frequentando consessi meno…agitati.
A tal fine, la Cantoria poteva costituire un eccellente primo viatico.
Nell’ambito dei riti religiosi, essa esercitava il suo compito, come detto, da una collocazione fisica che risultava singolarmente strategica: un presidio che, ancorché acusticamente ottimale, era defilato e celato agli occhi dei più, e indubbiamente privilegiato. 
Tale privilegio - spocchiosamente auto-attribuito in considerazione della somma rilevanza del servizio reso - consisteva nel fatto che, durante le principali funzioni solenni, negli intervalli in cui non si cantava, era lecito rompere le righe e, abbandonato l’usuale, raccolto contegno, rilassarsi. Potevi sporgerti con aria di malcelata importanza e guardare laggiù in basso i “poveri” fedeli che, irreggimentati in file ordinate come campi di granturco, gremivano le navate rispondendo all’unisono (…loro!) alle invocazioni del celebrante.
Delle lunghe prediche di cui, se non fosse stato per uno sgangherato altoparlante posto in alto su una parete, ti sarebbe giunto soltanto un indistinto rimbombo tonante d’enfasi, potevi persino permetterti la irriverente licenza di ignorare l’esistenza: si usciva sulle scale a fare discorsi in sparuti capannelli o, come osavano i giovinastri più cresciuti - indomabili insolenti - ci si riuniva a ridere e fumare nella sala isolata del mantice a braccia (originariamente, le canne dell’organo “prendevano l’aria” da un grosso mantice meccanico in legno movimentato dal ritmico sforzo di braccia del malcapitato di turno), proprio alle spalle dell’organo. 
Anarchia e disordine. Cataste di cappotti e confusione di spartiti sparpagliati sulle possenti balaustre.
Poi, rivolta un’ultima occhiata d’intesa all’officiante attraverso il piccolo foro quadrato che affacciava sull’altar maggiore, il maestro, ringhiando sottovoce con lo sguardo, richiamava all’ordine, e ognuno guadagnava tosto la propria posizione sopra le lunghe pedane di legno a gradoni, che si doveva attaccare.  
Sulle note celestiali e solenni dell’organo, l’attenzione risorgeva: in un istante ognuno riprendeva esatta coscienza del motivo per cui era lì.
Da cantore alle prime armi, mi prendevo spesso la licenza di “distrarmi” scrutando i volti petrosi di quei “vecchi” burberi - tali apparivano ai miei occhi di fanciullo - intenti a seguire, con risoluta, inesperta diligenza, ora lo spartito, retto con sgraziata delicatezza da quelle mani di cuoio, ora il maestro. 
Nessuno possedeva una vera conoscenza della musica: i segni sul pentagramma assolvevano lo scopo di assistere grossolanamente  la memoria nell’orientare la voce sui sublimi sentieri dell’armonia. 
Ma c’era tanta buona volontà e senso del bello dentro ognuna di quelle persone. 
Si capiva come il loro animo semplice fosse estasiato dal prodigio che promanava dalla fusione delle loro voci unite in coro: ne erano intimamente, misticamente rapiti. Ci fosse stato anche un unico empito artistico che avesse elevato e segnato le loro esistenze, avrebbe potuto trovare concreta espressione proprio qui, nel canto. E la melodia, magicamente, si levava e fluiva alta.
Quando incrociavo il loro sguardo, abbozzavano appena ad una vaga, distratta smorfia di sorriso, sufficiente, talvolta, soltanto ad impedir loro di mordere: un sorriso simile ad un solco tracciato nella terra di quei paesaggi duri, “antichi”, battuti dal vento della vita.
Ma erano facce anche serene, le loro, dolcemente cesellate e benedette dal lento incedere dei carri trainati dai cavalli, dal lavoro nella stalla a regolare le care bestie, dalla salutare fatica delle braccia nei campi sotto il sole, in sacrale simbiosi con gli elementi. Nei loro occhi potevi intuire il profumo della terra appena arata e delle sue rinnovate, vitali promesse.
Certamente quelle tormentate morfologie testimoniavano di vicende incredibili e sensazionali, di guerre, di storie eroiche sconosciute, di incontri eccezionali, di sfide e atti di coraggio; di una quotidianità comunque dura… 
Chissà i racconti che tenevano rinchiusi negli scrigni del loro dignitoso ed ostinato riserbo…
Ciascuno di essi avrebbe potuto essere un personaggio ”mitologico” e il loro mistero esercitava su di me un fascino ineffabile. 
In certe occasioni, i loro occhi tradivano un particolare guizzo di benevolenza, di nobile, dissimulata gentilezza: la notte di Natale, per esempio, quando ci si scambiavano gli auguri, allora, dismesse temporaneamente le dure scorze, potevi percepire l’affabile calore di quei cuori semplici. 
E potevi avvertire il profumo pulito del loro viso rasato di fresco, appositamente per arrivare in ordine alla messa di mezzanotte…
Trovavo  impossibile che, in tempi chissà quanto remoti, gote simili avessero potuto avere sembianze fanciullesche. 
Come in una galleria di ritratti in bianco e nero, di alcuni ricordo ancor oggi distintamente i visi, tutti invariabilmente caratterizzati da un bonario, pacato sorriso: Bepo Romàn, Milio Côč, Sandrìn con gli occhiali a mezzaluna sulla punta del naso, Misda coi suoi bravi baffetti, Elvio Casc, Vinicio Rôs, Rico Bujàt, Franco Morandìn, Rasmo Batèl, Bepùt (Villalta), Rizzo Luciano, Magjorìno Batèl, Bepo Pic (ai registri)… E i maestri Emilio Fiorino (Boçjàte), Carduccio Cuberli (Plaino), Adelchi Zoratti (Moruzzo), Piernio Passerini (Villalta)…
Una galassia vorticante di immagini, odori, suoni e sensazioni che ammantano il mio ricordo con le tiepide brume della nostalgia.

Cantoria di Martignacco anni '60
Cantoria di Martignacco anni '60